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Ecologia Banane: luci e ombre

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Molte contengono valori bassi di sostanze chimiche, ma non tutte. La banana è un frutto ampiamente consumato in tutto il mondo, e viene particolarmente apprezzato dal mercato europeo per via del suo sapore gradevole, “tropicale”, nonché dell’elevato valore nutrizionale associato. Un frutto che arriva da lontano, e che per essere coltivato e trasportato ha bisogno di massicci trattamenti con prodotti fitosanitari: ma quanti di essi rimangono sulla buccia, o addirittura riescono a passare nella polpa? Qual è il rischio per il consumatore e quali sono le implicazioni ambientali del diffuso utilizzo di pesticidi? Facciamo chiarezza con questa inchiesta.

Inchiesta: banane e residui di pesticidi
Dolce, saporita, profumata, dall’ottimo sapore, nutriente, disponibile in tutte le stagioni dell’anno; contiene zuccheri, fibre, vitamine e minerali, a fronte di un tenore di grassi quasi insignificante. La banana è un frutto universalmente apprezzato, la cui produzione mondiale annua si attesta sui 95.6 milioni di tonnellate. Secondo dati relativi al 2009 pubblicati dalla FAO (Food and Agriculture Organization, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura) il maggior produttore mondiale è l’India, con ben 26.2 milioni di tonnellate, ma sulle nostre tavole arrivano soprattutto banane provenienti da Paesi dell’America centrale e meridionale come Ecuador, Brasile, Messico, Costarica, Colombia e Honduras. Circa il 70% della produzione mondiale di banane avviene nelle Americhe: da solo, l’Ecuador produce ben il 30% di tutte le banane che arrivano da questo continente.

La moderna coltivazione delle banane si avvale di varietà selezionate che discendono da due specie selvatiche: Musa acuminata e Musa balbisiana. La propagazione della pianta avviene generalmente utilizzando colture di tessuti, oppure prelevando frammenti vegetativi e piantandoli direttamente nel terreno. La conseguenza di questa metodologia di coltivazione è la standardizzazione degli esemplari di banano: molto simili fra loro, se non identici dal punto di vista genetico. Questo è un aspetto molto pericoloso, poiché un parassita nuovo o particolarmente resistente ai trattamenti con pesticidi è potenzialmente in grado di distruggere interi bananeti.

E questo è già accaduto in passato: è il caso della cultivar Gros Michel, sensibile alla Malattia di Panama, causata da un fungo (Fusarium oxysporum) che attacca le radici del banano. Fino agli anni ’50 la Gros Michel era la varietà più coltivata al mondo, ma dovette essere abbandonata a causa dell’incontrollabile diffusione della malattia. Attualmente la cultivar maggiormente diffusa al mondo è la Cavendish, nome familiare in qualsiasi reparto ortofrutticolo italiano. Alcuni studiosi avvertono: è possibile che entro il prossimo decennio questa cultivar possa estinguersi, proprio a causa della sua scarsa diversità genetica. Le minacce sono rappresentate, oltre che dalla Malattia di Panama, anche dalla Sigatoka Nera (altra malattia trasmessa da un fungo) e da diverse gravi patologie di origine virale.

Ecco che dunque i motivi per i quali le piantagioni di banani sono gestite attraverso un utilizzo massiccio di prodotti antifungini: evitare la diffusione di malattie potenzialmente distruttive. Fra i più utilizzati troviamo i benzimidazoli, una categoria di pesticidi fungicidi sistemici ampiamente utilizzati in agricoltura sia per i trattamenti in campo che per quelli post-raccolta; la loro azione permette di controllare un’ampia gamma di patogeni dannosi sia per la pianta che per il frutto stesso. In particolare, la famiglia dei benzimidazoli comprende composti come il thiabendazolo (TBZ), il tiofanato-metile (TM) ed il benomyl; quest’ultimo, in tempi molto brevi in seguito al suo utilizzo, si trasforma in un suo derivato, il carbendazim (MBC). Il thiabendazolo ad alte dosi è tossico per l’uomo e un’esposizione elevata può causare capogiri, inappetenza, nausea e vomito. Un’esposizione cronica invece può causare un ritardo sulla crescita, nonché alterazioni sugli organi emopoietici e sul midollo osseo. Il thiabendazolo è un additivo autorizzato dalla legislazione europea, e viene indicato con la sigla E233: è obbligatorio indicare in etichetta (o sui cartellini informativi) quando un prodotto è trattato con tale sostanza. Secondo la legislazione italiana, il massimo limite residuo è di 1 milligrammo/chilo per il carbendazim e 5 mg/kg per il thiabendazolo (D.M. 19 maggio 2000. Testo unico sui limiti massimi di residui di sostanze attive contenute nei prodotti fitosanitari).

Poiché i benzimidazoli sono impiegati in quantità massicce, è fondamentale il monitoraggio per valutare l’esposizione dei consumatori nei confronti di tali fungicidi: esposizione che, chiaramente, avviene mediante l’eventuale ingestione di prodotti (in questo caso, banane) contenenti residui dei trattamenti fitosanitari.

Le ricerche scientifiche sui residui di pesticidi nelle banane
È interessante citare i risultati di una ricerca italiana svolta presso il Dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università degli Studi di Salerno, pubblicata nel 2004 sulla rivista Food Chemistry [1]. Nella ricerca sono stati esaminati 50 campioni di banane importate in Italia da Ecuador, Panama e Costarica durante il biennio 2002-2003, misurando le concentrazioni di tre diversi tipi di fungicidi comunemente utilizzati nelle piantagioni tropicali: benomyl ed il suo metabolita carbendazim, thiabendazolo e tiofanato-metile.

Dei 50 campioni analizzati, ben 34 non presentavano residui; in cinque campioni (cioè nel 10% dei casi) è stato trovato del carbendazim, con concentrazioni in genere al di sotto della soglia di 1 mg/kg, comprese fra 0.140 e 1.100 mg/kg. Nel 22% dei campioni, ovvero undici di quelli analizzati in totale, sono state trovate concentrazioni di thiabendazolo comprese fra 0.050 e 2.510 mg/kg, ben al di sotto della soglia prevista dalla legislazione italiana. In nessun campione, infine, sono emerse concentrazioni misurabili di tiofanato-metile. In sostanza, solo in due campioni sono state rilevate concentrazioni di carbendazim superiori a quanto previsto dalla legge: i ricercatori concludono quindi tranquillizzando i consumatori abituali di banane, e sottolineando il fatto che l’utilizzo dei fungicidi sembra essere controllato e correttamente gestito dai produttori d’oltreoceano.

Un altro lavoro, pubblicato nel 2009[2], ha riguardato la presenza di pesticidi nelle banane prodotte nelle isole Canarie. I ricercatori si sono concentrati su 11 diversi prodotti chimici, analizzando 57 campioni di banane; anche in questo caso i risultati hanno sostanzialmente evidenziato la presenza di residui inferiori alle soglie stabilite dalla legge, ad eccezione di due campioni nei quali il fenitrothion era superiore al limite. Un altro composto, il chlorpyrifos, era presente nella maggior parte dei campioni, e questo ha spinto i ricercatori ad effettuare una comparazione fra le quantità presenti sulla buccia e quelle nella polpa. I risultati hanno dimostrato che la maggior parte di questo pesticida rimane nella buccia e che anche a concentrazioni superficiali elevate (0.87 mg/kg) solo 0.07-0.12 mg/kg di chlorpyrifos sono stati ritrovati nella polpa. I ricercatori anche in questo caso evidenziano che – parole testuali – “i livelli di questi residui non possono essere considerati un serio problema di salute pubblica, in accordo con i regolamenti europei”.

Dunque, banane “sicure” per il consumatore? Sembrerebbe sostanzialmente di sì.

E gli altri frutti trattati superficialmente con prodotti chimici come se la cavano? Il panorama è piuttosto vario; una ricerca svoltasi in Germania e pubblicata nel 1999[3] ha evidenziato come i pesticidi più abbondanti siano il thiabendazolo e l’ortofenilfenolo. Sorprendentemente, i ricercatori hanno trovato concentrazioni superiori nelle bucce degli agrumi, rispetto a quelle di banane e kiwi. Le banane, dunque, possono essere considerate più “sicure” per la salute? Certamente non è sufficiente uno studio per affermare ciò, e non c’è da rallegrarsi per il fatto che un frutto sia meno contaminato di altri, quanto più preoccuparsi per la diffusa presenza di residui sulla frutta che consumiamo abitualmente.

Frutta che, certo, viene sbucciata, ma quanti di questi pesticidi passano nella polpa?

Un altro studio condotto in Germania[4] sembra essere altrettanto rassicurante, ed è stato effettuato su 74 campioni di banane di diversa origine, allo scopo di determinarne il contenuto di thiabendazolo. Dai risultati è emerso che la maggior parte dei campioni analizzati conteneva residui di thiabendazolo inferiori a 0.7 mg/kg nelle bucce, e 0.1 mg/kg nella polpa: ben al di sotto dei limiti stabiliti dalle autorità sanitarie (5 mg/kg). I ricercatori, studiando le dinamiche di trasferimento del pesticida dalla buccia alla polpa hanno evidenziato che attraverso la manipolazione solo minime quantità di thiabendazolo vengono trasferite alla parte edibile del frutto. E aggiungono che, per essere sicuri, un lavaggio del frutto con acqua tiepida fa sì che i residui “trasferiti” con le mani siano eliminati quasi totalmente.

Ambiente e salute dei lavoratori: due aspetti trascurati

Una ricerca pubblicata nel 2002[5] presentò i risultati riguardanti le dermatiti dei lavoratori delle piantagioni di banane del Panama, ed ascrivibili all’utilizzo di pesticidi. Gli autori studiarono ben 281 lavoratori, dei quali 227 impiegati sul campo ed i restanti 54 preposti al confezionamento del prodotto. I primi erano esposti ad una spaventosa gamma di pesticidi (propiconazolo, maneb, chlorothalonil, dithane, dalaphon, ametrine e gramoxone), ed anche quelli impiegati in fabbrica non erano da meno in quanto ad esposizione nei confronti di diversi prodotti chimici (imxalil, thiabendazolo, soluzioni di idrossido di alluminio e formaldeide). Ben l’82% dei lavoratori presentava dermatiti da contatto alle mani, seguite da torace ed addome (9%) gambe e piedi (5%) e persino ai genitali (4%): nell’85% dei casi le sostanze responsabili di queste affezioni furono individuate in chlorothalonil, thiabendazolo, imazalil e idrossido di alluminio. I risultati parlano chiaro: la contaminazione da fungicidi ed altri pesticidi non è solo un potenziale problema che riguarda i consumatori occidentali, ma che mette in grave pericolo la salute di decine di migliaia di lavoratori spesso sottopagati e sfruttati dalle compagnie bananiere.

Da questo discorso non si può certo tralasciare la questione ambientale: l’utilizzo massiccio e continuativo di prodotti fitosanitari pone un serio rischio agli ecosistemi delle aree tropicali interessati dalla presenza di estese piantagioni di banane. Uno studio pubblicato nel 2000[6] ha esaminato i residui di pesticidi presenti nelle acque e nei sedimenti del bacino del fiume Suerte, in Costarica, principale emissario della zona protetta di Tortuguero. Nelle acque superficiali, nei sedimenti e nella vegetazione erano ubiquitari ed abbondanti diversi fungicidi, nematocidi e insetticidi; nell’area protetta, ad esempio, il 43% dei campioni analizzati era contaminato da propiconazolo. I risultati non possono certo essere trascurati, e gli impatti ambientali sono notevoli: la maggior parte dei pesticidi rilevati rappresenta infatti un grave rischio per gli organismi acquatici, sia per via di episodi di tossicità acuta che cronica. La conservazione dell’ambiente, e soprattutto di aree dalla grande biodiversità ed importanza ecologica come gli ecosistemi tropicali e subtropicali, deve necessariamente passare da una riduzione dell’impiego di prodotti chimici all’interno delle piantagioni di banane.

Conclusioni

Secondo la bibliografia scientifica attualmente disponibile, non sono stati rilevati casi di gravi contaminazioni riguardanti le banane in commercio in Europa, né per quanto riguarda la buccia né relativamente alla parte edibile. Solo in rarissimi casi sono stati evidenziati superamenti nei confronti delle soglie stabilite dalla legge, ma si tratta di eventi sporadici che non devono allarmare il consumatore.

Precisiamo: “valori inferiori ai limiti previsti dalla legge” non significa automaticamente “livello zero”: una minima parte di pesticidi rimane, e non sono disponibili dati riguardanti un’esposizione a bassi livelli, ma cronica, nei confronti dei principi attivi come il thiabendazolo o altre molecole di sintesi.

Un altro aspetto importante da considerare riguarda gli impatti sociali ed ambientali che sono una diretta conseguenza del massiccio utilizzo di prodotti fitosanitari che avviene nei Paesi tropicali e subtropicali. Malattie cutanee, intossicazioni, alterazioni della funzionalità di diversi organi, nonché inquinamento, minacce alla biodiversità, perdita degli ecosistemi: il consumatore deve essere informato anche di questo, al fine di poter scegliere razionalmente se, quanto e con quale modalità consumare banane e, in generale, frutta tropicale.

Una scelta ambientalmente sostenibile, rispettosa della salute dei lavoratori e che garantisca l’assenza totale di residui di pesticidi potrebbe essere, una su tutte, quella della frutta biologica. In questo caso la coltivazione avviene senza l’utilizzo di prodotti fitosanitari, permettendo così di conciliare i tre aspetti sopra descritti.

Bibliografia

[1] Veneziano Attilio, Giovanni Vacca, Swizly Arana, Francesco De Simone, Luca Rastrelli. 2004. Determination of carbendazim, thiabendazole and thiophanate-methyl in banana (Musa acuminata) samples imported to Italy. Food Chemistry, 87(3), pp. 383-386.

[2] Hernández-Borgesa Javier, Juan Cabrera Cabrera, Miguel Ángel Rodríguez-Delgado, Estrella M. Hernández-Suáreza, Víctor Galán Saúcob. 2009. Analysis of pesticide residues in bananas harvested in the Canary Islands (Spain). Food Chemistry, 113(1), pp. 313-319.

[3] Forster M., Vorkamp K., Taube J., Herrmann R. 1999. Contribution of southern fruit peels to the contamination of biological waste. Water Science and Technology, 40(1), pp. 371-377.

[4] Koniger M., Wallnofer P.R. 1993. Studies on the fate of thiabendazole in bananas. Deutsche Lebensmittel-Rundschau, 89(12), pp. 384-385.

[5] Penagos Homero. 2002. Contact dermatitis caused by pesticides among banana plantation workers in Panama. International Journal of Occupational and Environmental Health, 8(1), pp. 14-18.

[6] Castillo Luisa E., Clemens Ruepert, Efrain Solis. 2000. Pesticide residues in the aquatic environment of banana plantation areas in the north Atlantic zone of Costa Rica. Environmental Toxicology and Chemistry, 19(8), pp. 1942-1950.

Siti internet da consultare
Pesticidi nel piatto 2010
http://www.legambiente.it/dettaglio.php?tipologia_id=10&contenuti_id=1101
Dossier annuale di Legambiente: “Quanti e quali sono i residui di pesticidi che contaminano la frutta, la verdura e i prodotti trasformati che arrivano sulle nostre tavole?”.

Letture consigliate
(in inglese)

Titolo: Banana: The Fate of the Fruit That Changed the World
Autore: Dan Koeppel
Editore: Penguin Group USA, Inc.
Anno: 2009
Lunghezza: 281 pagine


Titolo: Banana cultures: agriculture, consumption, and environmental change in Honduras and the United States
Autore: John Soluri
Editore: University of Texas Press
Anno: 2005
Lunghezza: 321 pagine


Titolo: Banana wars: power, production, and history in the Americas
Collana: American encounters/global interactions
Autori: Steve Striffler, Mark Moberg
Curatori: Steve Striffler, Mark Moberg
Editore: Duke University Press
Anno: 2003
Lunghezza: 364 pagine

http://www.guidaconsumatore.com/salute_benessere/banane-e-rischio-pesticidi.html


 
 
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