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Sessualità La pillola fa male alla prostata?

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Nelle nazioni dove si prendono più contraccettivi c'è una maggiore frequenza di cancro della ghiandola maschile
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Maria Rosa Valetto
13 gennaio 2012

MILANO - Là dove le donne prendono di più la pillola invece di usare altri contraccettivi, gli uomini si ammalano di più di tumore alla prostata e, almeno su scala mondiale, sono di più anche le vittime di questa malattia. Lo studio, pubblicato sul British Medical Journal, ha messo in relazione nelle diverse nazioni del mondo la frequenza del cancro della prostata nella popolazione maschile e il tipo di contraccezione praticata dalla popolazione femminile, scoprendo che effettivamente, almeno stando alle statistiche, un legame c’è. Come spiegarlo? Gli ormoni femminili contenuti nella pillola ed eliminati con le urine entrerebbero nel ciclo alimentare soprattutto attraverso l’acqua potabile; così, dopo decenni di esposizione a quantità anche minime, faciliterebbero la trasformazione maligna del tessuto della prostata.
LO STUDIO- «Abbiamo messo a confronto i dati ufficiali relativi alla frequenza del tumore con quelli sull’uso dei contraccettivi, in 87 nazioni rappresentative di tutto il pianeta» spiega David Margel, che ha condotto la ricerca all’Università di Toronto: «Alla luce dei nostri risultati l’aumento dell’uso dei contraccettivi ormonali negli ultimi decenni e la crescente frequenza del cancro della prostata osservata nello stesso periodo non sembrano una semplice coincidenza, anche perché nel nostro studio abbiamo cercato di eliminare i fattori che potevano interferire con l’affidabilità delle nostre conclusioni. Per esempio abbiamo tenuto conto del livello di sviluppo e di benessere delle nazioni prese a campione: tanto più esso è elevato tanto maggiore è, in genere, la contaminazione ambientale».

IL COMMENTO- «L’uso della pillola contraccettiva si associa a un aumento del rischio di cancro della prostata» titola il lavoro, che si definisce “uno studio ecologico”. Per essere sicuri di capire bene, è meglio rileggere lo studio sotto la guida di un autorevole esperto. «Certo il titolo è impegnativo, forse era meglio essere più possibilisti. D’altra parte non si può ignorare l’autorevolezza e la serietà di una rivista scientifica come il British Medical Journal che in genere esprime posizioni equilibrate. Va però sottolineato che, al di là del titolo, il tono dell’articolo è più moderato» commenta Giampaolo Velo, docente di farmacologia all’Università di Verona e direttore del Centro di farmacovigilanza della Regione Veneto. Proprio poche settimane fa l’esperto italiano è stato relatore a un Congresso della Royal Society of Medicine dedicato agli effetti sull’uomo e sulle specie viventi della dispersione di dosi anche bassissime di farmaci nell’ambiente: un problema emergente, questo, oggetto di una disciplina relativamente recente che va sotto il nome di ecofarmacovigilanza. Ed è stato lo stesso British Medical Journal a riproporre i punti salienti del congresso londinese in un articolo dal titolo questa volta meno allarmistico, ma comunque eloquente: Something in the water, Qualcosa nell’acqua. «Dunque è vero che i presupposti teorici ci sono, dal momento che da anni si conoscono gli effetti sull’ambiente di sostanze definite nell’insieme “interferenti endocrini” (endocrine disruptive compounds).» Si tratta di sostanze chimiche, e non farmaci, per esempio la diossina o il DDT, che hanno un’attività simile a quella degli ormoni e per questo hanno indotto modificazioni preoccupanti soprattutto in alcune specie acquatiche, per esempio la comparsa di caratteristiche femminili in individuo di sesso maschile. Anche, gli estrogeni, siano essi prodotti naturalmente o assunti a scopo contraccettivo o come terapia ormonale sostitutiva, possono avere effetti sull’uomo una volta eliminati nell’ambiente. «Una donna in età fertile elimina ogni giorno con le urine quantità di estrogeni analoghe a quelle rilasciate da una che assuma la pillola o sia in terapia sostitutiva» spiega Velo. «L’unica differenza è che quelli di origine farmacologica danno origine a composti che persistono più a lungo nell’ambiente». Nell’acqua potabile gli ormoni sono mille volte più diluiti che nelle urine: quantità minime, che comunque non si possono mai considerare irrilevanti. «Tornando all’atto di accusa alla pillola» commenta l’esperto, «per quanto l’ipotesi avanzata dallo studio abbia una sua logica, i dati non sono sufficienti per stabilire un nesso causale diretto con il cancro della prostata. La ricerca canadese ha comunque il merito di sollevare il problema e sensibilizzare la comunità scientifica al rischio». Rischio di fronte al quale va affermato il principio di precauzione: non negare il rischio semplicemente perché non c’è certezza, adottare tutte le misure possibili per minimizzarlo e ovviamente approfondire la questione con ulteriori studi mirati.

http://www.corriere.it/salute/sportello_cancro/12_gennaio_13/pillola-fa-male-a-prostata-villa_70ae6232-2a4e-11e1-88bd-433b1e8e4c01.shtml


 
 
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