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Ecologia Le particelle degli inceneritori non sono arrestabili

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Intervista al dott.Montanari, tra la sindrome dei Balcani, inceneritori e Torri Gemelle

Italia - Milano - 26.5.2006

“Per farle capire, faccio un esempio: è come se Cristoforo Colombo, arrivato in America, avesse deciso di fermarsi sulla spiaggia, senza andare oltre”. Risponde così Stefano Montanari quando gli chiediamo perché la ricerca sua e della moglie Antonietta Gatti deve proseguire. Una ricerca che parte da una scoperta inquietante: le nanoparticelle prodotte dalle combustioni possono uccidere.

Uno scenario inquietante. Detto così sembra solo una curiosità scientifica, come una di quelle malattie rare che toccano sempre a qualcun altro. Ma qui si parla di una cosa molto più pericolosa, molto più vicina a tutti noi. Perché queste nanoparticelle, secondo i due ricercatori, sarebbero prodotte anche dagli inceneritori di rifiuti. “Gli inceneritori non eliminano i rifiuti, li rendono anzi mille volte più tossici – dice Montanari - solo che sono invisibili e, con l’effetto aerosol della combustione, le particelle prodotte dalle alte temperature si diffondono nell’aria e finiscono nel corpo umano. Soprattutto perché si inalano e si posano sui prodotti alimentari che mangiamo ogni giorno”. L’ambito d’interesse della ricerca della dottoressa Gatti e di suo marito sulle nanoparticelle non finisce qui e arriva ad ambiti impensabili, come quelle che riguardano l’11 settembre 2001. “Osama bin Laden ha fatto un danno ancora più grande di quello che crede”, dice sconsolato il dottor Montanari, “le polveri liberate dall’esplosione dei due aerei e dal crollo delle Torri Gemelle faranno sentire il loro effetto nel futuro. La costruzione delle torri era avvenuta prima che si scoprissero i reali danni che provocava l’amianto. Il crollo ha liberato nell’aria una quantità impressionante di polveri sottili che sono state inalate. I disturbi che affliggono i cittadini di Manhattan sono solo il primo passo di un drammatico calvario. Secondo le cifre ufficiali sono circa 400mila le persone che hanno disturbi respiratori dopo l’attentato, ma temo che siano molti di più, perché tanta gente sottovaluta i sintomi. Inoltre perché le polveri inalate diano problemi visibili ci vogliono anni e temo che, purtroppo, moltissimi di loro moriranno per questo.

Tra rifiuti e uranio impoverito. Prima che emergessero le implicazioni con lo smaltimento dei rifiuti, la dottoressa Gatti faceva parte della seconda commissione d’inchiesta istituita dal Parlamento italiano per tentare di dare una risposta alla cosiddetta ‘sindrome dei Balcani’, cioè all’elevato tasso di forme cancerogene e tumorali tra i reduci della guerra del Kosovo del 1999. Per molti la diffusione così vasta di queste patologie in soggetti giovani e in piena forma fisica era da ricondurre all’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito. Secondo gli studi dei due ricercatori, la relazione tra l’uranio e le patologie dei militari e dei civili esiste, ma non nel senso che si sospettava. La ‘sindrome dei Balcani’, riscontrabile anche in militari reduci dalla guerra del Golfo, sarebbe provocata dalle microparticelle rilasciate nell’ambiente a seguito delle esplosioni di questi ordigni. Queste polveri contengono metalli pesanti che, attraverso la catena alimentare o per semplice inalazione, raggiungono l’organismo umano e provocherebbero forme tumorali. “Dei circa 500 soggetti che abbiamo analizzato negli anni”, racconta Montanari, “solo il 10 percento è rappresentato da militari, ma i dati raccolti sono indicativi. Tanto che l’Osservatorio militare, che si occupa di questo tipo di ricerche, collabora con noi che non abbiamo mai cercato i militari, ma siamo stati contattati da loro”. Quando la ricerca ha toccato gli interessi dello smaltimento dei rifiuti sono cominciati i guai. “Il business dei rifiuti muove interessi economici superiori a quello della droga”, spiega Montanari. Ma in che modo due studiosi possono aver messo in allarme gli affaristi del pattume? “Quando abbiamo diffuso i risultati della nostra ricerca, le multinazionali dell’alimentazione si sono rivolte a Bruxelles perché l’Unione Europea era comproprietaria del microscopio necessario per questo tipo di ricerche. Ma il nostro lavoro non accusa in nessuna maniera le multinazionali, visto che l’inquinamento degli alimenti non avviene certo per una loro negligenza. L’Unione Europea non ha ceduto alle pressioni e ci finanzierebbe un progetto di ricerca per 2 milioni e 800mila euro che però prevede la disponibilità dell’apparecchio”. Se l’Ue non ha boicottato il lavoro dei due ricercatori, perché il loro lavoro si è fermato e perché adesso cercano di proseguire con le ricerche in modo privato?

Il bavaglio alla ricerca. “Mia moglie Antonietta è la responsabile del Laboratorio dei Biomateriali dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e la ricerca avveniva in quella sede”, dice Montanari. “Il microscopio che utilizzava però non era di proprietà dell’Università, che ha chiuso il laboratorio perché considerato non a norma della legge 626. L’apparecchio era stato acquistato per 3/5 dall’Unione Europea e per il resto da finanziamenti ottenuti da mia moglie presso privati, grazie a suoi lavori di consulenza, che ha investito nell’acquisto. Il microscopio è stato dato poi all’Istituto Nazionale per la Fisica della Materia, che è stato assorbito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Quindi adesso, a norma di legge, è suo”. Com’è possibile che un istituto universitario chiuda un laboratorio che conduce ricerche di alto profilo scientifico perché non è a norma di legge sulla sicurezza dei lavoratori? Non bastava apportare le modifiche necessarie? “L’Università ha provato ad aprire un altro laboratorio, ma anche quello non era a norma. Guardi io non so cosa dirle”, risponde sconsolato Montanari, “non ho nulla da dire sull’Università e spero di cuore che si possa tornare a lavorare assieme. Se ci danno un laboratorio praticabile, noi ci torniamo di corsa. Nell’attesa, abbiamo investito tutti i risparmi di una vita sull’apertura di un laboratorio privato di ricerca per non perdere 34 anni di lavoro. Ma per farlo ci serve il microscopio”.
Con tutta la buona fede del mondo, è surreale che la dottoressa Gatti e suo marito non possano continuare le ricerche in ambito universitario per un motivo così futile. E’ probabile, anche se il dottor Montanari non conferma, che le pressioni subite dalle aziende che si muovono nel campo della produzione di alimenti e in quello dello smaltimento dei rifiuti siano riuscite a ottenere in Italia quello che non hanno ottenuto a Bruxelles. Fermare le ricerche.

La lotta continua. I due coniugi non si sono persi d’animo e hanno cominciato a battersi per trovare i fondi per l’acquisto del microscopio. Che per il prosieguo delle ricerche è fondamentale. “Vogliamo acquistare un microscopio chiamato Feg, dieci volte più potente dell’Esem che utilizzavamo prima. Occupandoci di nanoparticelle, è necessario uno strumento di questa qualità, anche perché consente di non ricoprire di metallo il campione che viene analizzato e questo consente di avere risultati ottimali sulle polveri, perché se le ricopro non vedo quello che sto cercando”. E la dottoressa Gatti e suo marito ne hanno trovate tante di cose. Ma com’è possibile che un patrimonio di ricerca come quello possa rischiare di andare perduto? Anche per gli interessi delle aziende, certo, magari poco interessate alla diffusione di notizie allarmanti. Se emergessero queste ricerche sugli inceneritori, vedrebbero sfumare appalti miliardari. Ma ci sono anche le gelosie dell’ambiente universitario, da sempre refrattario al lavoro di ricercatori che si muovono all’esterno delle logiche baronali. Sembrerebbe una sconfitta annunciata, ma un aiuto insperato potrebbe rivelarsi decisivo per Stefano e Antonietta: quello di Beppe Grillo. Quest’ultimo, quando si tratta di lottare per i diritti dei consumatori e per un progresso scientifico sostenibile, quando si tratta di sbugiardare gli interessi delle grandi corporation, non si tira mai indietro e anche questa volta non l’ha fatto. Il comico genovese, oltre a contribuire in prima persona, ha pubblicato un appello sul suo blog, che è uno dei più visitati al mondo e questo aiuto potrebbe risultare decisivo per la riuscita dell’impresa. “Il costo complessivo del microscopio è, IVA inclusa, di 550mila euro. L’apparecchio verrà acquistato dalla "Associazione Carlo Bortolani Onlus", che lo comprerà dalla Fei, un’azienda del gruppo Philips – racconta Montanari - La Fei ci ha dato una mano, facendoci uno sconto che ci permetterà di comperare il microscopio per meno di 400mila euro e i commerciali della Fei rinunceranno al loro compenso. Al momento abbiamo raccolto 63mila euro, però bisogna considerare che Beppe Grillo ha donato circa 36mila euro e il suo impresario altri 4mila. Ma speriamo di farcela, con l’aiuto di tutti e per il bene di tutti”.
Christian Elia
peacereporter.net


 
 
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