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Ecologia Che brutto clima farà

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Sempre più caldo. E meno acqua d'estate e più alluvioni d'inverno. Gli incendi aumenteranno. I nostri paesaggi saranno irriconoscibili. È allarme futuro per l'Europa



di Daniele Fanelli


Avremo sempre più caldo. Ci sarà meno acqua d'estate, ma più alluvioni d'inverno. Gli incendi aumenteranno. Anno dopo anno, finché i nostri paesaggi saranno irriconoscibili. Quelle che stiamo vivendo non sono stagioni eccezionali: è soltanto l'anticipazione del nostro futuro prossimo. Quello di un'Europa destinata a subire una rivoluzione climatica dove saranno la regola un agosto torrido come nel 2003 e un novembre devastante come in questi giorni. Con un peggioramento costante che stravolgerà il nostro modo di vivere.

L'equazione di partenza è semplice: più caldo vuol dire meno neve e più acqua; oppure meno acqua, se la neve non c'è. Il risultato, però, è assai complesso. Dipende dal tipo di ambiente colpito e dalla capacità di reazione di chi vi abita. Per prepararsi al futuro, occorrono dati precisi, analizzati da gruppi di ricerca sempre più grandi. Per questo l'Europa si è rivolta all'Ateam. Dietro l'acronimo, che richiama un telefilm d'azione degli anni Ottanta, c'è una rete mondiale di 18 laboratori: hanno lavorato per tre anni e mezzo, integrando nei più sofisticati programmi di simulazione, dati sociali, economici, climatici, ed ecologici. È così stato possibile disegnare l'Europa del 2080: una mappa ambientale con una risoluzione inferiore a 20 chilometri, in pratica si può prevedere quale sarà la situazione della Brianza distinguendola da quella del centro di Milano. Dati impressionanti e dettagliati che condizioneranno gli incontri a livello governativo anche al summit mondiale sul clima di Montreal che si conclude il 9 dicembre.

"Gli ecosistemi ci forniscono dei servizi, come acqua, legname, fertilità del suolo, protezione dalle alluvioni", spiega a 'L'Espresso' il leader del progetto Wolfgang Cramer, professore all'Università di Potsdam: "Noi volevano comprendere quali di questi servizi saranno più colpiti dai cambiamenti climatici e dalle trasformazioni del territorio". L'incremento demografico, le strategie economiche e lo sviluppo tecnologico influenzano direttamente l'ambiente, e sono in gran parte il frutto di scelte politiche, non prevedibili. Per valutare gli effetti di questi fattori, quindi, le simulazioni dell'Ateam si sono basate su quattro plausibili, ma diversi, futuri scenari socio-economici. "Rappresentano il tipo di scelte che i governi europei e del mondo potrebbero fare", spiega Cramer: "Noi volevamo comparare le conseguenze di queste diverse opzioni". Il confronto ha mostrato una sostanziale concordanza di previsioni: il tipo di strategie adottate influiva sull'entità dei cambiamenti, ma la distribuzione geografica dei mutamenti previsti restava la stessa. Insomma un futuro inevitabile.

A seconda degli scenari, la temperatura in Europa crescerà di un minimo di 2,1 gradi e di un massimo di 4,4 gradi, con un aumento più accentuato a Nord che a Sud. Vi sembra poco? No, è una variazione che può determinare effetti pesantissimi. Sulla Penisola scandinava, e probabilmente in gran parte dell'Europa centrale, le piogge aumenteranno. Al Sud, invece, diminuiranno decisamente. Questo, unito alle peggiori condizioni sociali ed economiche, farà dei paesi mediterranei le principali vittime del riscaldamento. Le distanze aumenteranno. E mentre l'Italia dovrà affrontare costi gravi, i paesi del Nord avranno soprattutto vantaggi, commenta Cramer dal suo ufficio di Potsdam.

La carenza d'acqua sarà uno dei problemi più gravi. Già nel 1995, circa 193 milioni di europei (su un totale di 383 milioni) si trovavano in condizioni di stress idrico (meno di 1.700 metri cubi d'acqua annui pro capite). Se non ci fosse l'effetto serra, le cose in futuro andrebbero meglio. Ma dato che il clima cambia, si prevede che tale cifra aumenterà. Qui gli scenari divergono: se va bene e i governi intervengono nel modo giusto, 'solo' 7,5 milioni di persone avranno problemi. Ma l'ipotesi più drammatica vede 44,3 milioni di europei alle soglie della sete nel 2080.

Noi saremo in prima linea, assieme a Spagna e Grecia: e non solo le regioni meridionali, quelle più abituate alla siccità. Anche nelle valli padane ci saranno problemi. In certe zone della Penisola la disponibilità pro capite di acqua si ridurrà di un terzo. Il danno alla produzione agricola sarà rilevante: in alcune aree scompariranno le coltivazioni, in altre bisognerà convertire i campi con piante più adatte ai nuovi climi. Nei paesi nordafricani la questione diventerà esplosiva, con un aumento della migrazione verso l'Europa.

C'è una sola nota positiva. Grazie al miglioramento delle tecnologie, le aree coltivate diminuiranno e lasceranno più spazio a prati e foreste, un fenomeno che si osserva già oggi in molti paesi, incluso il nostro. I nuovi boschi assorbiranno una parte dell'anidride carbonica, frenando l'effetto serra. Un circuito benefico di breve durata: senza interventi drastici, nel 2050 l'aumento di temperatura avrà già annullato questa boccata d'ossigeno. Le foreste sommate alla siccità e all'incuria, poi, alimenteranno roghi sempre più grandi. Una realtà che l'Ue ha già vissuto in Francia nel 2003 e in Portogallo la scorsa estate, ma che vedrà le fiamme sempre più spesso protagoniste. Anche in questo caso, solo la prevenzione può impedire la catastrofe continentale. Nella maggior parte d'Europa la portata dei fiumi è destinata a calare, con sorprese difficili da gestire. Entro il 2020-2030, andremo incontro a un'anticipazione delle piene, che da primaverili diventeranno invernali. D'estate, pertanto, i fiumi saranno quasi ovunque più bassi, e questo, tra gli altri effetti, impedirà la navigazione di corsi importantissimi, come il Danubio, il Rodano o il Reno, e limiterà l'attività di molte centrali idroelettriche. Il blackout potrebbe diventare una costante dei momenti più caldi. L'acqua che sarà mancata d'estate, in compenso arriverà tutta d'inverno, con allagamenti più potenti e frequenti. "Già oggi i dati indicano un aumento delle alluvioni in Europa", avverte il professor Nigel W. Arnell dell'Università di Southampton: "Ma le statistiche non sono ancora definitive, perché questi fenomeni sono soggetti a oscillazioni naturali". Questa variabilità, che fa sperare in un errore delle attuali previsioni, potrebbe invece rivelarsi il nostro peggior nemico. Secondo Arnell, infatti, "le variazioni naturali potrebbero mascherare il processo già in atto, i cui effetti arriverebbero quindi in ritardo, ma in modo ancora più inaspettato e drammatico".

Da almeno trent'anni, alpinisti e scienziati assistono impotenti alla ritirata dei ghiacciai di tutto il mondo. Ma di fronte al riscaldamento globale, batteranno in ritirata anche le nevi. Dall'attuale quota invernale di 1.300 metri, saliranno di circa 150 metri per ogni grado di temperatura in più. A seconda degli scenari, dunque, si troveranno più in alto di 200-400 metri, costringendo alla chiusura tanti impianti sciistici e lasciando molte aree di montagna prive della loro principale risorsa economica. Solo per dare due cifre: oggi in Svizzera circa l'85 per cento degli impianti ha ancora neve sufficiente; un innalzamento di 300 metri delle nevi ne lascerà aperti solo il 63 per cento. La situazione è ancora più grave in Italia, dove addirittura la metà delle stazioni sciistiche si trova intorno ai 1.300 metri. Conversione al turismo estivo, dunque? Per molte zone montane sembra l'unica soluzione. Salvo ricorrere ai cannoni sparaneve, con costi crescenti. Ma i problemi non finiscono qui. Infatti, come per i grandi fiumi di pianura, anche i torrenti e i fiumi di montagna vedranno arretrare il periodo delle piene. In estate le centrali idroelettriche in quota resteranno all'asciutto. In autunno, ci sarà meno neve e più pioggia: ondate improvvise metteranno le vallate a rischio di frana.

Insomma, l'intero panorama alpino sarà irrimediabilmente compromesso. "Se i peggiori cambiamenti causati dal clima si osserveranno nelle aree montane e in quelle mediterranee, è chiaro che sulle Alpi mediterranee ci sarà la combinazione peggiore", prevede Sandra Lavorel, del laboratorio di Ecologia alpina del Cnrs. Tanto in montagna che in pianura, infatti, moltissime piante e animali non si adatteranno al nuovo clima. "Delle oltre 2 mila specie di montagna e pianura che abbiamo considerato nello studio, il 25-50 per cento scomparirà nei prossimi settant'anni", spiega la Lavorel: "Alcune di queste specie saranno in grado di spostarsi verso il nord, divenuto più tiepide. Altre, però, sono destinate a estinguersi. Saranno sostituite da specie tipiche di climi più caldi, magari provenienti dall'Africa".
Le conseguenze di questo processo vanno considerate con urgenza. "Il castagno, per esempio", prosegue la Lavorel, "è ora diffusissimo nel centro e sud Europa, dove è la base di importantissime attività economiche, oltre che di secolari culture contadine. Da queste zone, però, sparirà quasi del tutto". Molte altre piante faranno questa fine, come il nocciolo, la quercia da sughero, il pino marittimo, il faggio, l'abete. Contro questi fenomeni non si può far niente, tranne che adattarsi, ma il tempo a disposizione non è molto. "Entro il 2050, la maggior parte dei cambiamenti sarà avvenuta, e sappiamo che molte attività economiche già oggi ne risentono". Contro i problemi una 'fortezza Europa' non servirebbe: inutile isolarsi, la questione è globale. E i paesi in via di sviluppo, assai più vulnerabili, se la passeranno molto peggio. "Se non agiremo nei prossimi anni, l'emergenza sarà ancor più grave", ammonisce Cramer, che invoca la sensibilizzazione delle comunità locali e piani concordati a livello planetario. Perché con una prognosi del genere, il Vecchio Continente ha davvero di che preoccuparsi. C'è solo da sperare che, oltre a tanti acciacchi, l'età porti anche più saggezza.

L'espresso 6 dicembre 2005


 
 
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